Nottataccia come da molto tempo non mi succedeva. Mi sveglio che sono a pezzi ma il senso di nausea e la sensazione di febbre sono passati. Non è da me: non mangio da ieri mattina e non ho fame; anche mio papà non è in forma: il caldo e lo stress della tappa di ieri ci hanno affossati. Beviamo un caffè e carichiamo i bagagli. La titolare dell’hotel ci chiede di scrivere una dedica sul guestbook e un selfie vicino alla macchina. Fuori il giardinere vedendoci partire ci chiede se vogliamo che bagni la macchina; accettiamo ed effettivamente il refrigerio è istantaneo.
Facciamo rifornimento e riprendiamo il viaggio: ci aspettano circa cinquecento chilometri nella monotonia del paesaggio kazako.
Attraversiamo pianure verdissime e aree estremamente aride. Il traffico è scarsissimo, viaggiare così è estremamente noioso. Abbiamo bisogno di una pausa e di bere qualcosa, sulla destra scorgiamo una costruzione fatiscente con un poster che raffigura cibo e bevande. La porta è chiusa, entriamo; lo stanzone disadorno ospita 2 pedane di quelle che tipicamente abbiamo incontrato dall’Iran. Su di essi 8 persone stanno riposando e bevendo tè; continuo a chiedermi come possano trovare comodi questi aggeggi che ti costringono a sedere per terra e mangiare su un tavolinetto alto venti centimetri!
Una donna, sorpresa della nostra presenza, ci chiede cosa vogliamo: domanda strana visto che dovrebbe essere una specie di bar. Provo a spiegarmi a parole, non capisce e usciamo indicandole le immagini delle bibite; prendiamo una specie di limonata russa orrenda, paghiamo l’equivalente di 50 centesimi e usciamo.
All’altezza di Bayqoñyr deviamo per l’area del famoso cosmodromo, da cui sono partite le principali missioni russe fin dagli anni 50. Si tratta di un’area vastissima, sotto il controllo amministrativo russo, da cui sono partiti per le missioni spaziali anche Palmisano e Cristoforetti.
Una ferrovia costeggia l’area, proseguiamo nel deserto per alcuni chilometri e vediamo in lontananza le installazioni. Alcuni cammelli pascolano liberi cibandosi dei pochi arbusti rinsecchiti tra un dedalo di tralicci dell’alta tensione. Giungiamo fino alla garrita della sorveglianza che ovviamente non ci lascia proseguire oltre. Il contesto è emozionante, il termometro segna 43 gradi.
Proseguiamo il viaggio, mancano ancora 180 chilometri e abbiamo meno di mezzo serbatoio. Di distributori neanche l’ombra. Decidiamo di economizzare: condizionatore spento e in scia di un tir fino all’ingresso di Aral. Scorgiamo una pompa sulla destra, ma maleducatamente ci dicono che non hanno diesel.
Proviamo ad entrare in città, siamo a secco quando vediamo una grossa stazione di servizio. Facciamo il pieno in dollari, il cambio proposto non è vantaggioso ma con l’equivalente di trenta dollari facciamo il pieno.
Nell’area di sosta c’è anche un albergo ristorante; mangiamo (cibo orrendo) e chiediamo una camera. Non ha il wi-fi quindi rinunciamo.
È ancora molto presto, sono le 16, quindi optiamo per un giro in città.
Cinquanta metri e ci ferma la polizia: fanali spenti. Immaginando la trafila di ieri mi scaldo immediatamente e sembra funzionare, visto che dopo una ramanzina (loro) e la mia spiegazione che non intendo pagare visto che uscivo dal distributore e li avremmo accesi a breve (in inglese – italiano – russo macceronico) accompagnato da ampia gesticolazione, ci salutano e ci augurano buon viaggio.
La città è poverissima e disadorna; ci sforziamo a trovare il bello ma proprio non c’è. La sabbia è ovunque e la polvere alzata dal vento contribuisce a trasferire il senso di miseria.
Costruzioni industriali abbandonate sono la traccia che un tempo qui si stava bene; un mosaico nella stazione ferroviaria racconta che fino agli anni sessanta questa era città portuale con impianti di trasformazione ittica.
Ora solo sabbia e desolazione.
Ci inoltriamo tra le case fino alla periferia; un avvallamento e subito dopo un deserto piattissimo sono la prova che un tempo lì c’era il mare. Mi pervade un forte senso di sconforto; qui l’uomo ha vinto (!) contro la natura.
In un’ora di giro la città l’abbiamo vista tutta, ci fermiamo in un alberghetto di nuova costruzione pubblicizzato lungo la strada.
La titolare, sbrigativa, ci dice il costo è vuole subito il pagamento, poi ci accompagna in camera.
Qui, come del resto nei vari paesi attraversati, tutto è approssimativo e kitsch. Le finiture sono solo abbozzate, mancano le piastrelle, la vasca in bagno è posata senza rivestimento; il soffitto della stanza è fucsia: piacerebbe molto alle mie figlie.
Forse la stanchezza mi rende un po’ troppo critico, voglio portarmi a casa il bello di questa tappa: i panorami meravigliosi, le mandrie di cavalli che pascolano tranquilli attraversando la superstrada come fosse un viottolo di campagna, i cammelli che ruminano all’ombra delle baracche, il silenzio assoluto del deserto, la soddisfazione di aver visto posti mitici che appartengono alla storia della tecnologia umana, la brezza fresca della sera, l’inglese imbarazzato di una bimba di 10 anni che mi spiega per conto del papà di spostare la macchina.